Il Benestare – a tavola con L’Enonauta #3 – Agriturismo Mas del Saro a Sant’Orsola – Pergine Valsugana (Trento)
A Mas Del Saro si arriva da Pergine Valsugana percorrendo prima la strada che conduce a Sant’Orsola e poi la provinciale che porta a Baselga di Pinè, sulla quale dopo 5/6 curve si svolta a destra in una strada che finisce proprio di fronte al Maso. Non lo si può trovare casualmente, ma si deve voler arrivare. Un’impresa non impossibile comunque.
Si notano subito l’orto con la sua serra e il cavolo nero che in effetti poi dopo abbiamo assaporato, una pergola con tavolo che è quello dove si può mangiare in estate quando il clima lo consente, e deve essere un bello stare a tavola, le arnie, la porta che conduce alla sala del ristorante. Che è stato scelto da Giulia, la mia compagna, individuato seguendo indicazioni che raccontano di un luogo speciale, pacifico, animato da persone radicalmente appassionate e dedite al proprio lavoro. Un impegno fatto di accoglienza, restituzione/testimonianza della vita di montagna, cucina stagionale autentica con ingredienti di propria produzione, incontro. Ciò di cui ha bisogno una famiglia dopo una lunga giornata passata tra lo sfavillante circo del Merano Wine Festival (il babbo, cioè chi scrive) e le Terme di Merano (il resto della famiglia e poi anche il babbo) e prima del ritorno a casa.
Ciò che abbiamo trovato è esattamente quello che nei racconti ci aveva persuaso ad andare.
Vea, cuoca ed esperta panificatrice, e Dario, appassionato di montagna e di vino nonché Bauer del Maso, sono ospiti partecipi e discreti nel guidare attraverso il percorso proposto che, fatto di piatti dai sapori che definire semplici è forse riduttivo e che quindi potrei definire “accuratamente semplici” e soprattutto netti, al gusto risulta integralmente, dal piatto d’apertura al liquore artigianale al Pino Mugo, un inno alla veridicità degli ingredienti e alla creatività di una cucina non povera, ma volutamente afferente a una tradizione di cui certo l’abbondanza non era protagonista.
Il menù comprendeva dunque Pinsotti con speck e lardo di aziende limitrofe e cavolo cappuccio “vivo” condito con aceto di mele, una zuppa di cavolo nero e fagioli davvero saporita che tradisce una parte di toscanità, il bottone ripieno di faraona in brodo di verdure e levistico che è rigoroso, scioglievole e delicato, il crumble di grano saraceno con verdure e maiale che mixa sapori e consistenze con leggerezza e naturalezza. Completa la proposta una selezione di Vini territoriale ed orientata alla qualità con prezzi equi. Così come equo trovo il prezzo del menu con in più il non diffusissimo merito della chiarezza. Memorabile al momento del digestivo, anche se col mangiare non c’entra niente, il cambio repentino di luminosità dovuto alla scomparsa del sole dietro il poggio che fiancheggia il Maso.
L’America era allora per me provincia dolce, mondo di pace Perduto paradiso, malinconia sottile, nevrosi lenta. [Amerigo, Francesco Guccini]
Ah, Amerigo, Amerigo! Basta il suono della parola e a noi rabdomanti del benestare il cuore si illanguidisce e la bocca si inumidisce. Perché da anni, ormai sono quasi una decina, non passano sei mesi (o se passano lo fanno con grande malinconia) senza che si salga sulle nostre auto, si imbocchi da Pistoia la SS64, strada dei cantieri perenni, per superare l’ombrosa Porretta, lasciarsi alle spalle la statale all’incirca all’altezza di Vergato, inerpicarsi sui tornanti della bassa Valsamoggia su su verso Rodiano e oltre, fino a veleggiare sul crinale e poi scendere in picchiata verso Savigno con gli occhi già sprizzanti di felicità e l’addome che si prepara ad accogliere l’emozione, come un palcoscenico in attesa dell’apertura del sipario.
Il banco della sala principale
Se c’è un luogo che è il metro di ogni esperienza gastronomica, un luogo a cui ho pensato quando ho deciso di intitolare questa rubrica Il Benestare, quel luogo è Amerigo. Anzi Amerigo 1934, ché ormai son novant’anni da che si deve ad Amerigo Vespucci e alla moglie Agnese l’apertura di questo luogo incantato, all’epoca più snella mescita di vini con spaccio di altri prodotti e qualche pietanza da mettere sotto i denti, destinato a farsi tempio del sentimento dell’ospitalità, sin da quando in uno dei due locali del primo piano gli abitanti della frazione si riunivano di fronte alla prima sala tv del paese.
Tre grandi classici: calzagatti, tigelle con gelato al parmigiano e battuta di bianca modenese con tartufo marzuolo
Novant’anni fa non c’eravamo ma sembra di respirare quello spirito antico nel modo in cui dal 1988 la trattoria (e adesso anche locanda) è stata trasformata e condotta dal nipote Alberto, che si trasforma anch’egli da aspirante architetto e globetrotter per una ditta di abbigliamento in magnifico patron nella nuova vita della trattoria. Riecheggiano qui, certo, quelle parole della canzone di Guccini intitolata proprio Amerigo, «Provincia dolce, mondo di pace, paradiso perduto», ma senza malinconia. Anzi. Perché se è pur vero che gli ambienti vogliono ribadire le proprie radici, lo fanno raccontando una propria storia sempre in evoluzione, dalle propaggini del liberty fino al passaggio di Gino Pellegrini, già scenografo per Disney, Hitchcock e Kubrick, che nel bolognese si stabilitì al rientro dagli Usa negli anni Settanta e a Savigno passò gli ultimi anni di vita; a lui si devono gli affreschi della seconda saletta del primo piano. Non è dunque semplicemente una scelta di design a esprimersi negli allestimenti ma la storia stessa, lo spirito del luogo, che è fatto dagli uomini e dalle donne che lo hanno animato e attraversato e lo vivono tutt’oggi, e che infatti di quegli uomini e donne esprime la temperatura umana, già dall’entrata, che può variare in base alle esigenze e alla stagione: talvolta direttamente nella sala principale, talvolta dalla bottega (riacquistata sul finire del secolo) in cui si possono trovare in vendita sughi e conserve del laboratorio gastronomico, ultimamente anche da una porticciola laterale adiacente alle cucine, quasi a ribadire il legame con le persone che sono il motore dell’officina dello star bene di cui godremo poco dopo.
Testina di maiale in cotoletta
Sta in questa fedeltà non marmorizzata, credo, il segreto di questo posto. In un modo di vivere il presente senza disperdere il tesoro del passato ma senza nemmeno esserne prigionieri. Lo stesso vale per la cucina, guidata da Giacomo Orlandi. E se non possiamo che concordare con la Guida Michelin, che da 25 anni ormai riconosce una meritatissima stella ad Amerigo, non possiamo farlo quando parla di nostalgico viaggio nel passato della regione. Ma quale nostalgia? Ma quale viaggio nel passato? Il menu è una meraviglia di equilibrio tra la valorizzazione della tradizione e la sfida al presente, che si esprime anche in nuove interpretazioni delle ricette e nella ricerca continua di nuovi fornitori e prodotti di qualità dai colli circostanti (vengono ancora i brividi a ricordare un prosciutto di mora romagnola stagionato oltre 50 mesi degustato ormai qualche anno fa… forse di Zivieri? O di Ca’ Lumaco?).
Tortelli ripieni di parmigiano con prosciutto di mora cotto al forno
Ecco, più che al tempo, più che al passato, la fedeltà è al luogo, al territorio e a quanto di buono può offrire, nel momento in cui lo offre. E allora vai coi funghi rigorosamente di stagione (nell’ultima nostra visita tanti i piatti con le spugnole), le erbe spontanee, gli ortaggi biologici coltivati a chilometro zero e le carni locali: cervo, capretto, coniglio, cacciagione del giorno, ma anche tagli e salumi di mora romagnola e soprattutto la valorizzazione della bianca modenese, vacca autoctona a rischio estinzione, addirittura esaltata in una battuta al coltello realizzata con il diaframma dell’animale. Non può mancare naturalmente una sfoglia magistrale (arte tramandata Giuliana e Marisa, mamma e zia di Alberto, alle nuove sfogline), coi tortellini in brodo tra i più buoni che si possa aver la fortuna di mangiare e il piatto che per me è proprio l’apice del godimento gastronomico, i Tortelli ripieni di parmigiano con prosciutto di mora cotto nel forno a legna, un concentrato di libidini per tutti sensi: dal gusto (ovviamente!) alla vista, all’olfatto, alla carezzevole consistenza; manca solo l’udito ma ad averne davanti un piatto nel silenzio della notte, avvicinandosi per ascoltarli, sono sicuro che li udiremmo parlare e raccontare storie su storie. Come fa tutto il menu, che testimonia anche nella struttura il già descritto sentimento del tempo non come nostalgia ma come storia in evoluzione, indicando su ogni pietanza la data nella quale è stata proposta la prima volta. Si può svariare quindi dai “grandi classici” senza data come le tagliatelle o i tortellini fino ai più recenti Doppia sfoglia lorda con le spugnole e Controfiletto di bovino locale grigliato, cardi al latte, spugnole e tartufo nero pregiato (2023), passando per i piatti per così dire iconici del locale, come le Tigelle con gelato di parmigiano all’aceto balsamico tradizionale affinato, del 2001, la Giardiniera di verdure, lingua, guancia, cotechino e salvia (2016), la Guancia di vitella brasata al barbera con purè e piccolo fritto di cipolla rossa (1997), il Capocollo di maiale brado di razza mora arrosto, fegatino all’alloro, broccolo fiolaro e mela senapata (2003), giusto per dire alcune delle cose meravigliose provate negli anni e trovate con piacere in offerta anche nella nostra ultima visita, ché i piatti di Amerigo, come certi amori, fanno dei giri immensi e poi ritornano.
Tre carni: capocollo, capretto e cervo
Gli stessi sentimenti animano anche la carta dei vini, o meglio le carte dei vini. Una più consueta, nazionale e internazionale, di qualità, come ci si può attendere in una trattoria di tale alto livello, e una che è una vera e propria bibbia sentimentale della viticoltura locale, con oltre cento referenze di vini dei colli bolognesi pronti a esprimere la personalità del luogo e, va detto, a stupire e sventare tanti pregiudizi. Ma in quanto al bere mi piace sottolineare anche la non comune buona accoglienza di Alberto agli ospiti che si portano le proprie bottiglie speciali, custodite magari a lungo nelle proprie cantine in attesa di un’occasione particolare, o semplicemente di poterle condividere in amicizia (anche con l’oste) in accoppiamento con una cucina all’altezza.
Trattoria da Amerigo a Savigno – Cremoso al cioccolato, zabajone e cialde croccanti
Infine, a dimostrazione di una vera vocazione all’ospitalità, va detto che resistono nella carta due menu degustazione, uno prettamente stagionale e un altro di presentazione dei piatti forti della storia del ristorante, ad un rapporto qualità/prezzo (il menu classico attualmente è a 50 euro da antipasto a dolce) che è un vero abbraccio della trattoria a tutti gli enonauti e gastronauti che vogliano oltrepassarne la soglia.
Lo sapete anche voi, non capita spesso di uscire da un pranzo “fuori” addirittura con un senso di graditudine. Magicamente è quello che succede qui, e la magia si ripete ogni volta. Tanto che lungo i tornanti del rientro, tra gli entusiasmi e la felicità e la sazietà, sorge anche immancabilmente lo stesso interrogativo: «Ragazzi, quando ci si torna?»
Vivo e lavoro con i libri e tra i libri ma sotto sotto penso in ogni istante a cosa si potrebbe mangiare e bere di buono alla prima occasione. Dei posti in cui sono stato bene amo parlarne con entusiasmo agli amici. Adesso anche qui.
Enoteca Ristorante Antica Torre, a Carmignano (Prato)
Indoe vien bona la vite, vien bona la vita. I modi di dire toscani nascondono nel loro repertorio una tale quantità di verità da poter essere sicuri di averne uno che va bene per qualsiasi necessità. Questo in particolare si attaglia benissimo al territorio di Carmignano. Vecchia riserva di caccia della famiglia de’ Medici, il territorio del Barco Reale Mediceo è la patria di uno dei vini più antichi (e buoni) d’Italia, denominazione di origine controllata ante litteram, precursore dei super-tuscan 400 anni prima di Giacomo Tachis e Piero Antinori, ma soprattutto è un gioiello di bellezza abbacinante incastonato quasi segretamente, come in uno scrigno collinare, a due passi dalle brutture delle vie di grande scorrimento tra Pistoia, Prato e Firenze. E un gioiello incastonato quasi segretamente nel borgo di Carmignano è anche l’Enoteca Ristorante Antica Torre. Una calda sala rustica con pavimento in cotto, alcune pareti in mattoni rossi e un grande camino, alleggerita e illuminata da elementi moderni, espositori e tavoli in vetro, senza tovagliato, in cui si è accolti con impagabile garbo e gentilezza dalla famiglia Verni: lo chef Mattia con zia Michelli in cucina, i genitori Daniele e Michela in sala. Mattia ha aperto il locale ad appena 24 anni nel marzo 2013, dopo il diploma alla Buontalenti di Firenze e un praticantato, evidentemente non troppo lungo, tra pizzerie, agriturismi e ristoranti, tra cui la Locanda dell’Angelo di Sarzana con lo chef Lorenzo Barsotti. Per diversi anni l’Antica Torre fa quello che tutti si aspetterebbero in questo angolo di colline: pappardelle, bistecca, ribollita… Poi pian piano il carattere di questo giovane creativo, coraggioso e umile, ma giustamente ambizioso, inizia a incrinare il quadro della perfetta real tuscan experience da cartolina: lo chef si guarda intorno e inizia a divertirsi. Si comincia a inserire un’entrée, si sperimentano diversi tipi di pane e grissini fatti in casa, si inventa un pre-dessert… e insomma Verni ci prende gusto e a un certo punto decide di ribaltare tutto. Un’inversione a 180 gradi di quelle per cui serve davvero tanto coraggio. La virata è netta. Addio menu bistecca, addio ai vecchi clienti, si va verso la cucina cosiddetta creativa. Resta l’atmosfera accogliente, per cui si entra e ci si sente a casa, resta la passione per la materia prima, ma a guardar bene qualche segno avverte subito che la campagna toscana qui mostra di sé un’anima meno stereotipata. Dal camino calano reti da pescatore e materiale illustrativo di un produttore di vino affinato sott’acqua in Val Camonica. La carta è un florilegio di sorprese. Piatti spiazzanti e ambiziosi, poggiati su una rara capacità di orchestrare affinità e contrasti. Si indovina anche l’intenzione che c’è dietro: divertirsi, stupire, sedurre, offrire un’esperienza fuori dal consueto. Il primo degli amuse-bouche della casa è già una dichiarazione di poetica, per un ristorante circondato da colline di viti e olivi: una falsa oliva di robiola glassata, con un pistacchio come nocciolo, su polvere di oliva disidratata e con una fialetta di olio per condire a piacere. Un divertito omaggio alle radici, una freccia scagliata verso l’altrove.
In generale questa doppia anima polarizza la carta nel suo insieme (carne e pesce se la giocano con pari dignità) e i singoli piatti, costruiti su dinamiche non scontate. Per limitarci alle cose che abbiamo provato: la capasanta nel latte di cocco e succo di melograno, ravvivata dal pepe rosa; la calamarata con purea di fave e bottarga che scopre un’entusiasmante verticalità nell’incontro con l’aringa; un vero capolavoro di perizia tecnica la terrina di fegatini con lardo marmorizzato, e il vin santo sferificato a mo’ di caviale a donare una spezzatura più fresca alla sapidità avvolgente del piatto.
Più nella norma l’abbinamento dei pici al cervo con i frutti di bosco cotti nel vino o il galletto in due diverse cotture con un’insalatina di finocchi e arance; comunque riuscitissimi entrambi, di una bontà e un calore confortanti, soprattutto il galletto che prima della frittura attraversa una lunga attesa di 12 ore di cottura a bassa temperatura, cosicché lo scrigno di una panatura ricca e saporita custodisce un tesoro di succosa tenerezza.
Pirotecnici i dolci, in cui si esalta la voglia di stupire, e di lasciare un ricordo peculiare anche agli occhi: bellissimi l’alveare di panna cotta al rhum (con tanto di api svolazzanti) e la scoppiettante bavarese al cioccolato bianco con frutti di bosco immersa in una nebbia di menta che si alza dal piatto fino a profumare l’intero locale.
Carta dei vini non ricchissima ma con bottiglie di varia qualità e un doveroso occhio di riguardo verso le produzioni del territorio. A mescita si offre la scelta fra tre bianchi, tre rossi, tre rosati e tre champagne, insomma quanto è necessario. Il conto, va detto, è un poco alto (per tre portate e un paio di calici di vino si sta sugli 80 euro; c’è la possibilità di menu degustazione con 5 portate e 2 calici di vino a 85 euro per la carne e 95 per il pesce) ma l’esperienza non è comune. L’insieme dell’accoglienza, dell’atmosfera, della proposta culinaria trasmettono quel senso complessivo dello star bene, anzi molto bene, che è il primo motivo che ci spinge a desiderare di tornare in un posto, per riunirsi a quel pezzetto di nostalgia che ogni volta lasciamo nelle sue stanze. E se cucine buone ce ne sono molte, luoghi come l’Antica Torre invece sono decisamente più rari, soprattutto nella sempre più artefatta Toscana, e quindi preziosi.
Vivo e lavoro con i libri e tra i libri ma sotto sotto penso in ogni istante a cosa si potrebbe mangiare e bere di buono alla prima occasione. Dei posti in cui sono stato bene amo parlarne con entusiasmo agli amici. Adesso anche qui.
Anche nel 2022 siamo dunque riusciti a pranzare da Amerigo a Savigno. Trattoria per cui non si spendono mai abbastanza parole di elogio. Per la cucina, l’accoglienza, la scelta di permettere ai wine lovers di accompagnare le proprie bottiglie alle sempre ottime proposte culinarie.
Blanc de noir (pinot nero) , colore dorato, Caramella d’orzo, pera, crosta di pane, lievi sentori di spezie, bergamotto, bolla fine e continua, fresco, suggerisce un che di ossidativo, ha anche spessore, buon finale con retrogusto speziato e di frutto maturo. Buono, adatto ad aprire il pranzo, ma non mi entusiasma.
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Châteauneaf du Pape Blanc 2020 – Chateau Mont – Redon
Blend di vitigni tipici del sud della Francia, no malolattica, sosta sulle fecce.
A un naso un po’ timido fanno da sponda piacevolezza di beva e una convincente forza e tensione gustativa. Il meglio lo dà dunque al palato. Profumi di pesca bianca, fiori di tiglio, cedro, il vino ha acidità eppure ha un tocco vellutato, volume e profondità.
Riceve apprezzamenti non unanimi, ma la bottiglia termina prima che qualcuno riesca a formulare una frase compiuta. Se il “metro” può essere misura e testimonianza in questo caso depone a suo favore. Dello Châteauneaf du Pape Blanc. Forse troppo giovane, chissà che non si trovasse in quella fase di quiescenza di cui si racconta nei libri.
Per me un ottimo vino.
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Le Trame Chianti Classico 2009 – Podere Le Boncie
Sangiovese con un po’ di Mammolo, Colorino e Foglia Tonda. Vino tendenzialmente naturale, se mi si passa il termine. Qui si apre una grande parentesi. Avevo già bevuto questa stessa bottiglia forse nel 2016 in compagnia di Rudi che oggi l’ha portata al ristorante come allora la portò a casa mia. È un bel rincontarsi dal momento che della prima conservo ancora il vuoto. Colore granato vivo, chiaro, fraganze di buona intensità che ricordano la Carruba, la lavanda, scorza d’arancio, marasca in confettura, torrefazione, a tratti balsamico, qui siamo al punto esatto in cui provare ad apprezzare un sangiovese d’annata e finire felici. Adesso, non l’anno prossimo. Qui siamo arrivati nel momento giusto.
Sorso fresco ben bilanciato, tannini che sono una filigrana, bocca coerente, densità giusta, aroma di bocca di rara piacevolezza, ottima persistenza tutta sul frutto maturo.
Un vino che riberrei cento volte.
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Barolo Cannubi 2012 – Giacomo Fenocchio
Avendo avuto la fortuna di essere presente all’acquisto di questa bottiglia l’assaggiai sul momento alla presenza del Signor Fenocchio, poi l’ho riassaggiata a casa, oggi la riassaggio dopo qualche anno e ne posso apprezzare il suo percorso in bottiglia. Figlio di un’annata, la 2012, ritenuta minore non è nel frattempo diventato figlio di una annata diversa. E per fortuna vorrei aggiungere. Il tempo ne ha stemperato l’austerità, resta un vino tattile, un po’ scorbutico, ma ha bei profumi di melagrana, ribes, genziana, foglia di the. Vino di medio corpo, asciutto nelle forme, fresco, comincia a trovare distensione tra le trame dei tannini, che tendono tuttora a chiudere un po’ il sorso. Secondo me tra tre/quattro anni potrà trovare un punto di evoluzione ulteriore anche se ha già innestato un passo che l’assenza di ricordi di surmaturazione fa pensare possa portare decisamente verso una eleganza più spiccata.
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Kurni 2013 – Oasi degli Angeli
Lo ricordavo più lezioso. Più smaccatamente dolce. Oggi lo trovo dolce, ma tra le altre cose. Non incontra tutti i palati, io stesso non sono un amante del genere “iperconcentrato”, ma ne conservavo una bottiglia per un’occasione ed eccola stappata sul finire del secondo in questo ottimo pranzo da Amerigo.
Montepulciano 100 percento Con invecchiamento in barriques.
Impenetrabile rubino scuro, Frutti di bosco, cassis, balsamico, cannella, tabacco, molto preciso e al contempo
Il sorso è voluminoso, caldo, ma senza ingombro. Ha una sua dinamica a bassa intensità, una suo modo di vibrare. Tannino smussato, sensazione generale di avvolgenza, persistenza prolungata.
Finendo la bottiglia si sconfina nel Dolce. E si accompagna abbastanza bene anche con la Zuppa Inglese dopo il Capretto.
Un’idea di vino che personalmente non riesco ad apprezzare fino in fondo, ma è un’idea ben realizzata.
Rigaglie e Champagne. La Rigaglia a Pistoia è quasi un Culto. Così come lo Champagne è oggetto di devozione planetaria. Talvolta si incontrano in questo lembo di Toscana e da questo incontro scaturiscono celebrazioni all’insegna della gioia di vivere, dell’amicizia e della condivisione. Una forma di sincretismo enogastronomico dai risultati sorprendenti.
Per questa serata si era deciso di accostare alle trippe solo lo Champagne, ma alla fine sono saltati fuori alcuni intrusi di ottima qualità.
Il menù prevedeva le seguenti portate: Lampredotto lesso risaltato in padella/Minestra di Centopelli/Trippa al forno con patate/Lingua bollita con salsa verde
Non perché il cuoco in questo caso fossi io, che non nascondo i fallimenti e gli esperimenti poco felici, ma i piatti erano decisamente ben riusciti. Compresa la trippa al forno con cui mi cimentavo per la prima volta.
Ci siamo bevuti i seguenti vini: Pouilly Fume 2020 Jean Pabiot Klabian Malvasia Black Label 2016 Champagne Prisme 2015 Guiborat Louis Roederer Collection 242 Champagne Brut Platine Maillart Barbaresco Montestefano 2014 Rivella Primitivo di Manduria Librante 2018 Luca Attanasio
Nelle serate estremamente ricreative il racconto si fa a memoria andando a ripescare note immateriali vergate su un blocchetto immaginario mentre giustamente ci si gode la compagnia degli amici. Non può che essere dunque approssimativo e sommario.
Pouilly Fume 2020 di Jean Pabiot
è stato aperto per accompagnare le ultime fasi di preparazione e le iniziali di impiattamento. Buono, preciso, sull’agrume, fiori bianchi, appena erbaceo, mela, sorso fresco, ma anche di spessore e persistente. Ottimo rapporto q/p.
Prisme 15 di Guiborat – Rigaglie e Champagne
(Chardonnay) ha un perlage tra i più possenti mai sperimentati, spara crema di limoni, tropicalità, crosta di pane, floreale, al palato risulta molto fresco e diretto, verticale e affilato, mi è parso un po’ monolitico e graffiante.
Louis Roederer Collection 242 – Rigaglie e Champagne
(Pinot nero, meunier e chardonnay con vino di riserva di diverse annate) spicca per eleganza, equilibrio, per la potenza misurata con cui si apre nel bicchiere. Uno champagne la cui genesi è un po’ complicata da spiegare e anche da capire. All’assaggio però lo si può definire immediato. Naso caleidoscopico e espansivo, nocciola, frutta passita, arancia candita, coi minuti mostra una personalità cangiante e vira sullo zenzero, l’uva sultanina. Perlage fino, sorso setoso e ricco con bella persistenza. Dura poco, alla fine lascia un bel sentimento.
Maillart Platine – Rigaglie e Champagne
risulta essere il più “vino” dei tre, di gusto pieno, bolla cremosa, ha consistenza, ricordi fruttati prima che di lievito e di pasticceria, di spezie, più secco degli altri, con una bella coda sapida.
Malvasia Black Label di Klabian 2016
è un bianco macerato di grande qualità, espressivo e non piallato dalla tecnica di vinificazione, più intenso al palato che profumato, flessuoso, sapido, a tratti opulento. Profumi che ricordano fiori come l’elicriso, erbe aromatiche, albicocca disidratata, il Cappero secco.
Barbaresco Montestefano 2014 di Rivella
è un capolavoro che mette insieme rigore e piacevolezza. Anguria, genziana, rosa. Esordio fresco e poi un allungo infinito tutto sul frutto gentile, solo leggermente speziato sul finale, con un tannino fitto e preciso che lascia riemergere l’identità di questo vino nel lunghissimo finale.
Librante 2018 di Luca Attanasio
è un Primitivo di grande sostanza, vino intenso, concentrato, profumato di prugna, mora, spezie dolci, tabacco, che al palato è però definito, senza sbavature, dotato di una freschezza viva che anima questa grande materia e questo alcool non indifferente.
I bicchieri Zalto che il padrone di casa mette a disposizione degli amici dimostrando fiducia nelle capacità psicofisiche dei presenti, e di questo gliene saremo per sempre grati, arricchiscono la serata.