Va in scena la prima edizione di Stravino, la mostra mercato realizzata dalle delegazioni Fisar di Pistoia e Prato nelle serre di Toscana Fair, il ristorante ospitato all’interno dell’azienda Mati Pianti di Pistoia. Vale la pena di farci un salto, se non altro perché sembra finalmente una iniziativa enologica pistoiese realizzata con tutti i crismi per fare discreta divulgazione, e non solo cassa o bagordi. In effetti la realizzazione è pregevole. C’è sufficiente aria tra i tavoli di degustazione, un numero giusto di espositori proporzionalmente allo spazio disponibile e un’agevole accessibilità per il pubblico; almeno la domenica fino al primo pomeriggio ci si poteva muovere tranquillamente e avere il tempo di conversare con gli espositori, in buona parte presenti in prima persona. Principale limite logistico la modesta capienza dei parcheggi che, con la location stretta tra autostrada e superstrada, può preoccupare rispetto alla prospettiva di una (auspicabile) crescita. Lista degli espositori pubblicata con congruo anticipo per valutare e preparare la visita, offerta sufficientemente differenziata e rappresentativa di gran parte del territorio vinicolo italiano, con preponderanza per la Toscana (ovviamente) e il Veneto, e qualche lacuna che sicuramente in futuro verrà colmata (ma in fondo non è nemmeno troppo importante che lo sia). Perlopiù produttori piccoli e medio piccoli, meno noti al grande pubblico, e qualche sparuta etichetta anche da grande distribuzione che appare quasi fuori contesto.
Io e il mio compare enofeticista Massimiliano ci avventuriamo in una passeggiata domenicale di banco in banco, senza pretese, senza programmi, senza prendere appunti, guidati solo dalla curiosità e dal magnetismo delle bottiglie, decidendo per una esplorazione di bianchi e una esplorazione di rossi intervallate da una pausa.
Tra la qualità varia dei molti vini assaggiati mi preme segnalare quei pochi attimi che tra gli altri fuggenti e i molti dimenticabili mi hanno costretto a sostare, a fermarmi, a intensificare l’attenzione solo in virtù dell’emozione generata dal bicchiere. Non perché non ci fossero in degustazione altri vini meritevoli ma perché, come ben sanno i frequentatori molto amatoriali di questo tipo di eventi, la sorte gioca a mostrare e nascondere e, come in una affollata festa ai tempi del liceo, il sorriso da colpo di fulmine si può incontrare dietro un qualsiasi angolo ma può anche scivolarci accanto senza incrociare il nostro sguardo.
Tenuta Stella – Collio – Stravino Pistoia
Si spenda allora qualche parola per i bianchi biologici di Tenuta Stella, a Scriò (Gorizia), nel Collio. Tutti molto buoni ma in particolare si apprezzano le due ribolle ferme. La versione base integra la parte affinata in acciaio e quella affinata in tonneaux in un delizioso equilibrio in cui tutto il legno si è trasformato in un avvolgente gusto di pasticceria fine e vaniglia. Bottiglia per me addirittura più sorprendente, fatte le dovute proporzioni con le aspettative, dell’ottima riserva, che dai vari passaggi tra botte e tonneaux riceve in eredità una bella spinta di frutta essiccata e liquirizia senza che gli affinamenti vadano a incidere (anzi!) sulla freschezza del frutto. Vino prontissimo sin da subito ma, direi, allo stesso tempo portatore di grandi promesse a chi voglia attenderlo anche a lungo.
Prima di passare ad altro, segnaliamo della cantina goriziana anche il divertente blended rosso di uve autoctone Sdencina, assaggiato dopo pranzo, intenso ma di grandissima beva, tra frutti impetuosi, spezie scoppiettanti e lunga balsamicità finale.
Podere Pellicciano – San Miniato- Stravino Pistoia
La seconda saetta è scagliata da Cupido quando ci troviamo al banco del Podere Pellicciano di San Miniato (Pisa), dove oltre a un olio extravergine d’oliva che immaginiamo in abito da sera, tanta è l’eleganza, tra una larga scelta di vini realizzati con accesissima passione più per l’uva che per il mercato, spicca già alla vista il colore nel calice del trebbiano in purezza Fonte Vivo: un limpidissimo oro tendente all’intensità dell’ambra che fulmineo ci trafigge il cuore, seguito da un ricchissimo bouquet di frutta secca e erbe aromatiche. Il bello è che il vino mantiene ciò che promette: i cinquanta giorni di appassimento e la lunga macerazione hanno trasformato il frutto in una carezza sensuale, senza nessuna scompostezza o esagerazione, in un equilibrio godurioso di acidità, alcolicità, misurata tannicità e grande succosità. Trebbiano onorato come merita in questa esemplificazione perfetta della filosofia che soggiace alla pratica del Podere, secondo cui «col legno si fanno le sedie e i tavolini; il vino si fa con l’uva». Applausi. Sia per il vino sia per la massima, che, concordiamo con il vignaiolo, andrebbe stampata sulle magliette.
Anche nel caso del Podere Pellicciano ci piace ricordare l’incontro con un rosso: Prato della rocca, un blended di Malvasia nera, Sangiovese, Colorino e Canaiolo fermentati all’unisono, in cui tutto l’amore esercitato nella cura dei vini monovarietali in catalogo si infonde in un siero di mirabolante complessità con uno spettro aromatico praticamente sterminato. Non certo un vino che si incontra tutti i giorni, come ci ricorda, giustamente, e dolorosamente, il prezzo.
Pit Stop
Dopo una pausa pranzo modesta con schiacciatina (così così) alla mortadella (bòna!) nel bar del Toscana Fair (che ospita anche il ristorante omonimo, già esauritissimo con le prenotazioni), andiamo alla caccia di scintille nei vini rossi.
Prato al Pozzo – Montecucco – Stravino Pistoia
La prima è quella appiccata dai due Arpagone dell’azienda Prato al Pozzo, di Cinigiano (Grosseto), nel territorio del Montecucco. Sia nella versione base sia nella versione Riserva, luccica la non banale delicatezza che la cantina sa trarre dal sangiovese. Se si è piacevolmente rinfrescati dal ventaglio delle spezie di cui si abbellisce la versione base, ancora più sorprendente è l’effetto dell’incontro con il sorso della Riserva. Del legno degli affinamenti non resta che finezza, spezie e note di cioccolato. Mentre i tannini morbidi e dolci copulano con i sentori di pepe, si fa strada una sapidità che si espande sul palato e si fa lunga e persistente, come il ricordo di un bacio in una canzone di Gino Paoli. Se non è amore, è almeno innamoramento. Ci allontaniamo allegri.
Come nel caso di un rubacuori che all’improvviso termina il suo folleggiare di gioia in gioia, il quarto è anche il colpo di fulmine definitivo, quello che ci fa decidere di concludere le degustazioni prima del previsto, ritenendo di aver raggiunto un apice difficilmente replicabile nella giornata.
Carmina Arvalia – Bolgheri
L’assaggio di Carmina Arvalia 2019, del Podere Trinci di Castagneto Carducci (Livorno), è una rivelazione. Nel cuore del territorio di Bolgheri, come un folletto dal bosco sbuca fuori questa bottiglia che sembra essere arrivata da un altro pianeta per quanto evita di uniformarsi agli obliteratissimi codici del territorio. E in effetti è un po’ in un altrove che affonda le radici questa piccolissima azienda, che si deve all’arrivo dal Salento nel 2003 di Pasquale Perrone e di sua figlia Maria Chiara, e alla loro scelta di coltivare a vigneti un solo ettaro pedecollinare pochi metri sopra il livello del mare nella frazione Fonte di Foiano, rispettando il disciplinare della Bolgheri DOC ma ancor più assecondando un vero culto dell’uva. Lavorazioni completamente manuali, nessun trattamento chimico sul terreno, uve vinificate appena arrivano in cantina, nessuna chiarificazione o filtrazione, et cetera et cetera. Quel che ne viene fuori è, se mi permettete un paradosso, uno spettacolare anti-bolgheri: un vino dall’anima luminosa, niente affatto compiacente o compiaciuto, anzi rigoroso e amichevole al tempo stesso, in cui merlot, cabernet sauvignon, sangiovese, cabernet franc e syrah sembrano essersi ritirati nella loro macerazione come pensatori assorti nei loro pensieri, per poi non tanto fondersi quanto confrontarsi in un lungo, armonioso dialogo a più voci. Qualcuno ha scritto che è un vino poetico ma io direi più poematico: nei soli dieci minuti passati al banco nel bicchiere e nel palato i frutti, le spezie e le erbe dopo un brevissimo incipit sonnacchioso affondato sotto le coltri di un tannino da ossigenare, si mettono in moto e si incalzano a vicenda, ognuna con la propria voce, dando vita a una continua metamorfosi. È l’unico vino della giornata di cui non si può sputare nemmeno una goccia e, anzi, ne chiedo un secondo assaggio, avvinto ormai senza resistenze alla narrazione che continua a evolvere, mentre nel frattempo apprezziamo la consonanza tra questo vino così ricco, autentico, gentile e generoso e le omologhe qualità di chi lo produce e ce lo presenta. Emoziona il pensare cosa deve essere centellinare questa bottiglia nell’arco di qualche giorno (spoiler: lo scoprirò a breve). Stavolta è proprio amore e, c’è da scommetterci, non svanirà presto.